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Vecchio 12-19-2008, 07:06 PM
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predefinito Carcinoma Renale: definizione linee guida in ambito clinico

Carcinoma Renale: definizione linee guida in ambito clinico


Basi scientifiche per la definizione di linee-guida in ambito clinico per il Carcinoma Renale, Ottobre 2008
(riassunto preparato da Giancarlo dall’originale con medesimo titolo, documento pubblico su internet di 279 pagine al sito iss.it;
qui invece il riassunto del documento originale, preparato in pdf di 55 pagine e quindi in forma più esaustiva rispetto a quella sotto pubblicata)

SORVEGLIANZA DOPO CHIRURGIA
Dopo la nefrectomia radicale per carcinoma renale (RCC), circa il 20-30% dei pazienti con una forma localizzata di tumore presenta ripresa di malattia. Di questi, meno del 5% ha una recidiva locale isolata, mentre la maggioranza dei casi presenta metastasi a distanza (1). Il tempo mediano alla recidiva è di 15-18 mesi e l'85% delle riprese di malattia si verifica entro i primi 3 anni. Tumori che all'esordio presentano un interessamento linfonodale tendono a recidivare molto più precocemente. Tuttavia, è esperienza comune, osservare recidive fino a 15- 20 anni dalla nefrectomia, con localizzazioni tardive al polmone, ossa, pancreas, muscolo scheletrico, peritoneo e tessuto sottocutaneo e, molto sporadicamente, all'uretere omolaterale ed alla vescica (2). Il polmone è la sede più frequente di ripresa a distanza della malattia con il 50-60% dei casi. Molto frequentemente le recidive locali possono essere a partenza dai linfonodi dell'ilo renale o loco- regionali lasciati in situ, all'atto della nefrectomia radicale. Il tumore del rene da un punto di vista epidemiologico, ha la massima frequenza nella VI-VII decade di vita con una popolazione di pazienti portatori di importanti comorbidità, la cui conoscenza specifica è di fondamentale importanza sia nella pianificazione del trattamento primario che, successivamente, nel follow-up. Bisogna, quindi, prevedere un'attenzione particolare alle condizioni cardiocircolatorie, alle malattie metaboliche, ai parametri di funzione renale e, soprattutto, ai molteplici farmaci assunti. Alcuni di questi, come i diuretici e gli antipertensivi, possono impattare sfavorevolmente sulla funzione renale per la coesistente nefroangiosclerosi. E' noto, infatti, che la condizione di monorene o, in caso di nefrectomia parziale, quella di una ridotta massa nefronica comportano inevitabilmente modificazioni dell'emodinamica intrarenale secondaria alla iperfiltrazione, che può essere fortemente condizionata dai farmaci antipertensivi o diuretici (3). Razionale per un attento follow-up Ancora oggi, il miglior trattamento della ripresa di malattia del RCC è la chirurgia. In passato, le recidive tendevano ad essere diagnosticate tardivamente in pazienti sintomatici. In tali casi, la chirurgia diventava pericolosa ed era gravata da importante morbilità ed alta mortalità. Oggi, la sorveglianza dopo chirurgia è intensiva ed attenta a diagnosticare precocemente la ripresa di malattia per rendere la chirurgia fattibile e meno pericolosa. Tra l'altro, anche i recenti protocolli terapeutici che impiegano i nuovi farmaci a bersaglio molecolare nella malattia "sistemica" prevedono migliori risultati nella malattia minima e suggeriscono, quando possibile, una chirurgia debulking.

DIAGNOSTICA PER IMMAGINI
Metodiche Numerose sono le metodiche radiologiche che vengono impiegate nello studio dei pazienti con tumore renale sospetto o già accertato. Il progresso tecnologico, e soprattutto lo sviluppo delle metodiche digitali, hanno ampliato le possibilità offerte dalla diagnostica per immagini. L'urografia tradizionale, largamente impiegata in passato, ha perso gran parte della sua utilità e non deve essere proposta per l'identificazione o la caratterizzazione di una massa renale (1). La maggioranza dei tumori viene attualmente diagnosticata mediante ultrasonografia (US) o tomografia computerizzata (TC), eseguite in genere per motivi clinici diversi e non legati ad una specifica sintomatologia urologica (2,3). La RM, inizialmente proposta per la definizione della massa e per la stadiazione, è attualmente considerata complementare alla TC multistrato che rappresenta pertanto, al momento attuale, la metodica diagnostica gold standard (4-6). La TC richiede un protocollo di esecuzione rigido, che tenga conto delle caratteristiche somatiche del paziente, del timing e della velocità d'iniezione del mezzo di contrasto, delle fasi di scansione, dello spessore dello strato, dalle quali dipende la qualità dell'esame e la possibilità di eseguire ricostruzioni 3-dimensionali necessarie al planning chirurgico.

METASTASI A DISTANZA
Il polmone è la sede più frequente e precoce di metastasi nei pazienti con tumore renale. Il radiogramma del torace è ritenuto indispensabile in tutti i casi, mentre la TC del polmone è ancora controversa. Nei tumori di dimensioni < 3 cm, il rischio di metastasi è così basso per cui molti ritengono la TC non necessaria (46). Poiché il rischio di metastasi aumenta con il diametro della lesione, l'indirizzo accettato quasi ovunque è quello di una TC del torace. Se lesioni sospette vengono evidenziate già sul radiogramma del torace, la TC viene comunque eseguita per definire meglio il numero, dimensioni e localizzazioni delle lesioni secondarie. La TC dell'addome inferiore non trova indicazioni, in quanto non si rilevano lesioni correlate al tumore primitivo. La scintigrafia ossea non trova indicazioni nei soggetti asintomatici, mentre deve essere eseguita nei casi di dolori ossei, aumento non giustificato della fosfatasi alcalina od in presenza di tumori molto voluminosi (47). Anche la RM e la TC cerebrale non sono giustificati nei soggetti asintomatici, ma solo quando sono presenti segni neurologici od in pazienti con metastasi in altri organi. La PET con FDG non trova applicazioni routinarie nella stadiazione del tumore renale per bassa sensibilità diagnostica, anche se in taluni casi può identificare metastasi inaspettate in soggetti ad alto rischio o per identificare delle recidive nella loggia renale dopo nefrectomia radicale (7,8).

TERAPIA CON FARMACI BERSAGLIO-MIRATI
Nel corso degli ultimi anni, il carcinoma renale è passato da una condizione di "malattia orfana", a causa delle scarse opzioni terapeutiche disponibili (1), a quella di modello di sviluppo "in vivo" per nuovi farmaci. Causa di questa trasformazione è stata la scoperta della forte angiogenicità della malattia, legata alla presenza di alterazioni del gene responsabile della Sindrome di von Hippel-Lindau (VHL) nel 65-75% dei casi di malattia sporadica (2).

INIBITORI DELL'ATTIVITÀ TIROSIN-CHINASICA DEI RECETTORI DI VEGF (VEGFR TKI)
Sunitinib e Sorafenib sono due piccole molecole, somministrabili per via orale, in grado di inibire l'attività di numerosi recettori appartenenti alla famiglia dei recettori tirosin-chinasici (RTK). Sunitinib è una piccola molecola che inibisce principalmente l'attività tiroson- chinasica del recettore 2 del Vascular Endothelial Growth Factor (VEGFR-2) e del recettore del Platelet Derived Growth Factor (PDGFR). E' in grado di inibire, inoltre, c-Kit ed altri targets. I primi studi di fase II effettuati con questo farmaco, pubblicati nel 2006 ed effettuati su pazienti in progressione dopo trattamento con citochine, hanno evidenziato un'elevata attività clinica del farmaco, impiegato alla dose quotidiana di 50 mg per quattro settimane consecutive, seguite da due settimane senza trattamento. In entrambi gli studi, si sono ottenute risposte parziali nel 36-40% dei casi e PFS mediane di 8.1-8.7 mesi (11,12). A seguito di questi risultati è stato condotto, anche in questo caso, uno studio confirmatorio di fase III (randomizzato prospettico, multicentrico, open label), su 750 casi non pretrattati, che ha confrontato Sunitinib, (alla dose giornaliera di 50 mg per quattro settimane ogni sei) ad Interferon alfa (alla dose di 9 MIU tre volte la settimana). I dati conclusivi dello studio, recentemente pubblicati, mostrano un incremento significativo della risposta obiettiva nei pazienti trattati con Sunitinib (risposte parziali nel 31-39% dei pazienti trattati in base, rispettivamente, alla valutazione della commissione indipendente o dello sperimentatore, verso il solo 8% ottenuto dal trattamento con Interferon alfa) con un controllo globale di malattia (risposta obiettiva più stazionarietà) nel 79% dei casi ed un raddoppio della PFS mediana (11 vs 5 mesi, p < 0.001). La tollerabilità è stata accettabile, con tossicità principali di tipo ematologico, cutaneo e gastroenterico, associate a marcata astenia ed ipertensione, da considerare appannaggio costante di questa classe di farmaci. Anche in questo caso, risultati e tossicità principali sono riportati nelle tabelle 1 e 2. Non si dispone, al momento, di dati di sopravvivenza, ma solo della segnalazione di un trend in tal senso (13). Va segnalato, infine, che sono in corso di valutazione schemi di somministrazione alternativi, caratterizzati da minori dosaggi quotidiani, associati a modalità di somministrazione continuativa.

VALUTAZIONE DELLA RISPOSTA TERAPEUTICA AI TRATTAMENTI BIOLOGICI E NUOVE TOSSICITÀ
Con il crescente utilizzo dei nuovi farmaci biologici, è emersa l'inadeguatezza dei consueti criteri di valutazione della risposta (criteri RECIST), che si basa su parametri dimensionali, riduzione od aumento, delle masse tumorali misurabili. In molti pazienti, infatti, si dimostra una stabilizzazione dimensionale della malattia e, non raramente, addirittura un lieve aumento dei diametri, che si accompagna tuttavia a cavitazione delle lesioni, con evidenti aree di necrosi od emorragia al proprio interno. Questa evenienza deve essere correttamente interpretata piuttosto come risposta ai trattamenti, pur sfuggendo ai criteri RECIST, e deve essere segnalata nei referti radiologici per consentire che, più appropriatamente, la terapia sia proseguita piuttosto che interrotta. I trattamenti biologici non sono immuni da effetti collaterali. In particolare, gli inibitori multitarget dei recettori ad attività tirosin-chinasica possono interagire con i recettori per il fattore di crescita di derivazione piastrinica (PDGFRa e PDGFRß), per il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGFR1, VEGFR2 e VEGFR3), per il fattore della cellula staminale (KIT), quello tirosin-chinasico FLT3 (Fms-like tyrosine kinase 3), quello CSF-1R (colony stimulating factor receptor) ed infine con il recettore per il fattore neurotrofico di derivazione gliale (RET) (40,41). Gli effetti collaterali più frequentemente osservati sono vari: ipertensione arteriosa (25%), alterazioni della funzione tiroidea (anormalità degli esami di laboratorio fino all'85% dei pazienti: solitamente ipotiroidismo, di cui circa un 20% con sintomi manifesti e necessità di terapia sostitutiva), diarrea (38%), nausea (16%), vomito (10%), perdita di appetito (20%), alterazioni a carico della cute con la comparsa di rash, hand-foot sindrome, eritema acrale (20-30%) ed infine, alterazioni subungueali (10%) (40-43). Quasi tutti i disturbi sono reversibili con la sospensione della terapia. Peraltro, come già segnalato per altri farmaci della stessa famiglia, compreso lapatinib e imatinib, gli inibitori di tirosin-chinasi Sunitinib e Sorafenib possono comportare anche disfunzioni cardiache importanti con una riduzione della frazione di eiezione cardiaca nel 10-15% dei pazienti, compromettendo a livello della cellula miocardica meccanismi complessi, inducendo sia apoptosi che deplezione delle scorte di ATP (44). Questo riscontro consiglia pertanto un adeguato monitoraggio clinico-strumentale della funzionalità cardiaca, specie nei pazienti più a rischio. Rimangono aperti importanti interrogativi per il migliore utilizzo di tali farmaci, stante il diverso meccanismo d'azione rispetto ai farmaci tradizionali, in termini di sorveglianza e management della tossicità. Di recente, grande rilievo si sta attribuendo al rapporto fra la risposta sistemica infiammatoria verso la proliferazione tumorale e la mortalità cancro-specifica. Alcuni studi suggeriscono che la VES può predire la sopravvivenza di questi malati, allo stesso modo dei livelli sierici della proteina C reattiva (PCR) (15). Questi ultimi sono correlati con la produzione di citochine pro-infiammatorie, come IL-6 e possibilmente, con la progressione del tumore. Valori di PCR basali compresi fra 4.1 e 23 mg/l conferivano un aumento del rischio di morte per RCC 5.2 volte maggiore, mentre pazienti con PCR > 23 mg/l aveva un rischio aumentato di 11 volte. Ancora, aggiungendo la PCR al sistema di staging integrato della UCLA l'accuratezza predittiva aumentava del 3.7% (p < 0.001).
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